Bentrovati Oncers all'appuntamento settimanale con il destino. La legge magica ha voluto che fossi io, questa settimana, a scagliare la mia maledizione: Cisco, lo stregone che quest'anno ha deciso di diventare molto cattivo e di gettare anatemi che farebbero impallidire Lord Voldemort. Il commento che segue è fastidioso, insoddisfatto, rassegnato e antipatico. Però è sincero e senza peli su quella lingua triforcuta che è tratto distintivo e congenito della nostra congrega. Quindi, insomma, leggete per quello che è: una critica criticamente criticona, non certo pensata per farvi infuriare, ma per proporvi un certo punto di vista che, al massimo, vi strapperà qualche risata di biasimo per il sottoscritto. Pochi giorni fa lo show ha compiuto esattamente sei anni, e se penso al me stesso nel 2011, quando seriamente buona parte del mio cervello letteralmente era occupato dal chiodo fisso di Once Upon a Time – e dei suoi personaggi-, ora quasi mi verrebbe voglia di piangere per la disperazione e fare stragi di “innocenti” autori. Tuttavia durante la visione disperata di questa nuova creazione della settima stagione – che dell’opera di Borges condivide solo il titolo-, i miei pensieri non indugiavano tanto su ciò che stavo – ahimè- guardando, ma su ciò che – ancora più ahimè- avrei dovuto scrivere. È infatti difficile scrivere su qualcosa che, semplicemente, non c’è. O su qualcosa che, per quanto la si giri, sa di già visto. Non posso accettare di credere di stare guardando uno show completamente nuovo, così per farmelo –forse- piacere di più, quando innanzitutto il titolo “Once Upon a Time” è lì, imperioso e prepotente sullo schermo, e quando specialmente tutto quello che accade nella puntata non è che, ancora una volta, una bruttissima fotocopia di ciò che già venne raccontato sei anni fa. E, questa volta, il mio non è un capriccio da fan ormai deluso e amareggiato, perché neanche a farlo apposta – oppure sì, chissà- a denunciare questo brutto vizio che sembra quasi denotare e identificare la nuova stagione ci pensa la voce dell’innocenza. È proprio Enrichina a far notare al proprio amnesico ragazzo padre che l’idea di infrattarsi nelle viscere della terra per trovare un cimelio di famiglia in puro cristallo di Tarovskij allo scopo di dare credito alla teoria del Multiverso e della stronzaggine di una matrigna, era stata proprio sua, anni addietro. Va bene che questa volta non si trattava di una bara e che non era coinvolto uno psichiatra salterino, ma a parte questo le analogie sono molte, e oltretutto penose. Così come non mancano continui richiami e rimandi alla fu Sindachessa Waccona intenta a radere al suolo beni pubblici e la fantasia di una ragazzina, e ad un manipolo di ignari e improbabili “eroi” che complottano per abolirne la tirannia. Persino nel flashback, da annoverare nella classifica dei meno incisivi di sempre, buono solo a introdurre personaggi nuovi e a ripescare vecchie glorie del passato in modo assai distratto e forzato, in un contesto già ampiamente snocciolato tra le prime tre stagioni. Perlomeno, a parte assistere ad una rivistazione in chiave fiabesca di Spartacus, si scopre il motivo celato dietro alla faida tra matrigna e figliastra. Come non poteva c’entrare la morte di una persona cara alla matrigna, irremovibile nella convinzione che la colpa del decesso – nonché della fame e delle malattie nel mondo- sia interamente imputabile alla figliastra? Insomma, se tanto bisogna rivivere e riproporre la nostagia dei tempi andati, tanto vale farlo fino in fondo. Arrivando anche a riscrivere completamente le leggi della magia sulla questione “risurrezione”. Pertanto come villain niente di nuovo sotto al sole, anche se sicuramente in linea con tutti i suoi degni compari di merende che abbiamo incontrato nel corso degli anni. In primis, come già affermato, con la villain originale con la quale sempre di più condivide il per nulla sobrio guardaroba griffato e ingrifato. Di questo passo, chissà se e quando si metterà ad offrire mele avvelenate e/o a piangere lacrimoni di coccodrillo. Se per la premiere mi ero, di proposito, astenuto dal prendere troppo in considerazione l’esotica principessa sguattera, a questo punto sarebbe ingiusto non farlo. Intanto sarebbe doveroso farle i complimenti, dal momento che pur essendo stata dotata di un esile corpicino e di abiti strabordanti di trine, pizzi e balze riesce a destreggiarsi da abile centaura a cavallo di un trabiccolo che peserà sì e no qualche tonnellata, senza incontrare per un attimo le difficoltà legate ai delicati equilibri che regolano il matrimonio tra frizione, pedale del cambio, acceleratore e freno. A parte questo, piuttosto divertente anche se assurdo, non riesco ad empatizzare con il personaggio, di cui oltretutto non riesco a riscontrare quelle differenze che, secondo la logica del contrappasso imposta dalla Maledizione oscura – se di quella ancora si tratta, ma perché no? Sarebbe la quinta propinataci, in fondo, quindi perché cambiare?- dovrebbero esistere tra la versione fiabesca e quella cittadina. Giacintola rimane sostanzialmente la medesima versione di se stessa, del tipo cioè che viene chiaramente fregato dalla matrigna, che ha un’autostima tre metri sottoterra e che necessita sempre dell’aiuto altrui – della suocera, e non andiamo oltre- per sottrarsi alla tentazione ed allo sconforto, e per diventare per un breve momento l’eroina popolare agli occhi adoranti della figlia e a quelli allupati dell’ignaro marito. Un altro problema che mi impedisce di avvicinarmi al personaggio, tuttavia, è di diversa natura, e di complicata spiegazione. Complicata perché il rischio di inimicarmi ancora di più il popolo dei lettori- se ci sono- è alto. In questo show, pur con tutti i suoi alti e bassi, un elemento è sempre stato, almeno per me, molto alto: le doti recitative degli attori. Anche quei personaggi che mai mi sono stati simpatici, e che anzi non sopport-av-o, sono sempre risultati credibili grazie alle performance dei rispettici interpreti. E sono certo, senza modestia, che sia questo il giusto approccio, ovvero apprezzare il lavoro e la professionalità di questi artisti a prescindere dalle simpatie/antipatie che si hanno per il loro alter-ego fittizio, o addirittura per loro medesimi. Quindi mi spiace dover ammettere di non apprezzare la recitazione di Dania Ramirez, e di trovarla davvero troppo artificiosa e poco naturale, nonché spesso anche un po’ anonima. Di nuovo, non ho trovato nulla di interessante riguardo ai tre sopravvissuti alla mietitura, specialmente, come già detto prima, la loro presenza forzata nel flashback – avranno scoperto che ora ci si può facilmente abbonare a viaggi interdimensionali?-, in primis quella di Capitan Findus. Nel presente, invece, la Signora del Bar Disperazione funge più che altro come supporto morale ed alcolico, mentre tra lo Sherlock Colluso e il Watson Monco sembra voler rinascere per la ennesima, snervante volta la scintilla dell’atavica scaramuccia. Visto che dell’ultima scena se ne è parlato tanto, e teorizzato ancora di più, cercherò di non essere da meno. Per quanto mi riguarda, ho solo visto una scena buttata a caso giusto per dare un po’ di mistero alla puntata e probabilmente, all’intero arco narrativo, proponendo un nuovo personaggio inquietante – per l’hair style, più che altro- che dovrebbe forse essere la “genialata” della stagione, il tutto condito da dialoghi confusi ad hoc per dire tutto e non dire nulla, per riportare a galla quelle atmosfere da prima stagione che sicuramente faranno cadere in deliquio i nostalgici, confermando perciò il successo che Adamo ed Edoardo cercano maniacalmente di poter assaporare di nuovo. La tortura è finita, andate in pace. A tra due settimane. SKADUSSSSSSSHHHHHHH
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Novembre 2016
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